Storie di nomi, di caffè e pasticcerie di altre epoche, ricordi di atmosfere che muovono sensazioni proustiane, ricette di città che cambiano sapore.
Lo scrittore Jacopo Nacci ci racconta Pesaro con una sua affascinante “mitologia urbana”:
-Primo luogo del nulla-
“Un accumulo irriflessivo, casuale, nel corso dei tempi, che produce una stratificazione geologica visibile. Il Teatro, Harnold’s, il Dolce Vita e il Dolce Caffè: in quale epoca vuoi entrare? L’Ottocento? I primi del Novecento? Oppure vuoi ridurre i secoli a decenni? Gli anni Ottanta? Gli anni Novanta? Piazzale Lazzarini è anche un museo, dove epoche e luoghi convivono in una stessa epoca e in uno stesso luogo. Se oltre il Cavalcavia c’è la periferia, che rinnova costantemente un moderno scolpito nell’eterno; e se alle spalle c’è il centro, dove i franchising riescono ad annullare completamente la stratificazione storica, tanto che non la senti più, nel lusso del candore asettico dei negozi di mutande o di smartphone, qui in Piazzale Lazzarini l’accumulo è enigmistico: dalla parte opposta al Dolce Vita c’è il Dolce Caffè. Se Dolce Vita era un nome che fino a venti anni fa aveva un senso suo preciso, ecco che la condivisione dell’aggettivo Dolce con l’ennesimo nome da bar del nulla – Dolce Caffè, Caffè scuro, Caffè nero, Nero caffè, Bianca caffetteria del corso, l’ennesimo nome dato in automatico – ecco che contamina anche il nome del Dolce Vita, un bar vecchio che vorrebbe essere antico, che si interseca con un bar nuovo che manco si preoccupa di essere qualcosa. In questo museo vivente, anche il Dolce Caffè, nel suo essere un non-luogo quasi perfetto a cominciare dal nome, diventa espressione storica, documentante, di quella epoca in cui si è deciso non consciamente che le epoche erano finite, e si esprimeva lo spirito del tempo attraverso un’estetica della fine delle epoche; solo che la storia in realtà non si ferma, e il risultato è che quei pretesi posti del presente eterno li percepisci irreparabilmente come posti di vent’anni fa: ci entri e vieni investito dalla musica house passata al vocoder, dalla tarda new age virata di etnico ambientale: ciò che, con una spallata liberatoria, voleva sfondare il muro della storia, è riuscito solo a piombare negli anni novanta eterni. La sovrapposizione qui trasforma la memoria in memoria della memoria.
Intorno al ’93, veniva dipinto, sull’ultima parete di Harnold’s, quella con la porta del bagno, un murale che rappresentava due figuri con occhiali neri e cresta ossigenata in stile new wave, due Righeira allungati da una lente deformante, come se ci si fosse accorti solo nel ’93 che Harnold’s, la paninoteca, la paninoteca disegnata come un labirinto di PacMan, era un posto clamorosamente anni Ottanta, e all’improvviso si volesse celebrare quell’immaginario, finendo invece per celebrare solo la tardiva presa di coscienza di averne fatto parte, perché il murale stesso rappresenta sì icone degli anni ottanta, ma in colori e tratti irrimediabilmente postumi. Poco più in là, il Dolce Vita, contento del Novecento come Paolo Conte, resiste eroicamente coagulando le forze nella sua vetrata liberty, radicandosi in una storia che non ha e che forse non ha mai avuto. Ma che importa, qua il bello anzi è proprio questo.”